giovedì 22 ottobre 2009

L’acribìa storica

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«Chi conosce le leggi della storia sarà d’accordo con me che uno storiografo fedele al suo compito deve sbarazzarsi dello spirito di adulazione e di maldicenza. Egli deve, per quanto sia possibile, mettersi nelle condizioni dello storico che non è agitato da nessuna passione. Insensibile a tutte le altre cose, egli deve badare soltanto agli interessi della verità e per amore di questa deve sacrificare la sensibilità per un torto che gli sia stato fatto o la memoria di un beneficio ricevuto, e persino l’amor di patria. Deve dimenticare che appartiene a un dato paese, che fu educato a una data fede, che deve riconoscenza a questo o a quello, che questi o quelli sono i suoi genitori, i suoi amici. Uno storico in quanto tale è [...] senza madre e senza discendenti. Se gli si domanda di dove viene, deve rispondere: Non sono né francese né tedesco, né inglese né spagnolo; sono cosmopolita; non sono né al servizio dell’imperatore né al servizio del re di Francia, ma esclusivamente al servizio della verità; questa è la mia unica regina, alla quale ho prestato giuramento di obbedienza».

P. Bayle, Dizionario storico-critico

domenica 4 ottobre 2009

Federico II di Svevia

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Federico II di Hohenstaufen e il suo falcone
raffigurati nel suo libro De arte venandi cum avibus



Nel Proemio della sua opera Sull’arte di cacciare con gli uccelli, Federico II formula alcuni criteri metodologici di notevole interesse. Dopo aver dichiarato che molti libri sulla caccia godevano fama immeritata perché in realtà erano «menzogneri e inadeguati», l’imperatore rivendica la propria indipendenza di giudizio anche nei confronti di Aristotele: «Nello scrivere abbiamo anche seguito Aristotele, quando ciò apparive necessario. In alcuni punti, tuttavia, siamo dell’opinione, sulla base delle esperienze da Noi condotte, che, per quanto concerne la natura di determinati uccelli, egli si sia allontanato dalla verità. Pertanto non in tutto concordiamo con il Principe dei filosofi, giacché mai o solamente di rado egli si dedicò all’uccellagione, a differenza di Noi che l’abbiamo sempre amata e praticata. Aristotele racconta molte cose sugli animali, specificando che furono altri a dirle; ma ciò che altri sostennero, egli stesso non vide, né fu visto da coloro che per lui si resero garanti. La certezza non si raggiunge con l’orecchio... In questo trattato di falconeria è Nostra intenzione mostrare le cose così come esse sono, e presentarle come un’arte precisa, perché finora sono mancate, in proposito, sia l’arte sia la scienza».


Addestramento e cura dei falchi da caccia in una miniatura
dal De arte venandi cum avibus dell’Imperatore Federico II
(Biblioteca Apostolica Vaticana)

L’opera consiste in un trattato di falconeria cioè sui sistemi di allevamento, addestramento e impiego di uccelli rapaci (propriamente falchi) nella caccia (soprattutto ad altri uccelli, tutti accuratamente descritti nell’opera). Essa sarebbe, in realtà, un rimaneggiamento di una traduzione effettuata dal siriano Teodoro di un testo arabo. Federico ampliò il testo e aggiunse il notevole corredo di immagini. Ulteriori aggiunte furono effettuate dal figlio Manfredi, anch’egli valente falconiere.


Scritta in lingua latina, si compone di due parti, la prima sull’ornitologia (un vero e proprio “trattato di ornitologia generale”, secondo lo studioso Ernst Kantorowitz), l’altra specifica sui falchi e la falconeria. Da notare che in alcuni fogli non sono state ultimate le figure, rimaste ancora da colorare, probabilmente perché il trattato era ancora in fase di lavoro. Il famoso manoscritto, oggi conservato in Vaticano, è illustrato da miniature e risale probabilmente alle direttive dell’imperatore stesso. In oltre 500 immagini d’uccelli, sono presentate almeno un’ottantina di specie. Inoltre, e questo è senza dubbio sorprendente in un manoscritto medievale, vi si trovano descrizioni sul volo e su altri tipi comportamentali degli uccelli stessi.

San Francesco da papa Innocenzo III

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Nel 1209 San Francesco si recò con dodici compagni a Roma per ottenere da papa Innocenzo III l’approvazione della Regola del nuovo ordine dei frati minori francescani. Giotto rappresenta in questo affresco della Basilica Superiore di Assisi il momento della benedizione data dal Papa, ricercando una sempre maggiore coerenza nel rapporto tra figure umane e spazio architettonico.
Giotto, Approvazione della Regola (1296-1304 circa)

Lettera di papa Innocenzo III

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“Come Dio, creatore dell’universo, ha creato due grandi luci nel firmamento del cielo, la più grande per presiedere al giorno e la più piccola per presiedere alla notte, così egli ha stabilito nel firmamento della Chiesa universale, espressa dal nome di cielo, due grandi dignità: la maggiore a presiedere – per così dire – ai giorni cioè alle anime, e la minore a presiedere alle notti cioè ai corpi. Esse sono l’autorità pontificia e il potere regio. Così, come la luna riceve la sua luce dal sole e per tale ragione è inferiore a lui per quantità e qualità, dimensione ed effetti, similmente il potere regio deriva dall’autorità papale lo splendore della propria dignità e quanto più è con essa a contatto, di tanto maggior luce si adorna, e quanto più ne è distante tanto meno acquista in splendore. Ambedue questi poteri hanno avuto collocata la sede del loro primato in Italia, il qual paese quindi ottenne la precedenza su ogni altro per divina disposizione. E perciò, se pure noi dobbiamo estendere l’attenzione della nostra provvidenza a tutte le province, tuttavia dobbiamo con particolare e paterna sollecitudine provvedere all’Italia, dove furono poste le fondamenta della religione cristiana e dove l’eccellenza del sacerdozio e della dignità si esalta con la supremazia della Santa Sede...”.
Sicut universitatis conditor (30 ottobre 1198)

mercoledì 30 settembre 2009

Lunetta della Basilica di San Zeno (Verona)


Il portale presenta una lunetta policroma (scolpita da Niccolò) di grande interesse. Questa raffigurazione indica un momento storico ben preciso, cioè la nascita del comune di Ve­rona (intorno al 1136): il vescovo San Zeno è infatti raffigurato nell’atto di consegnare il vessillo della città ai soldati comunali che dovranno difendere la giovane istituzione.
Nella lunetta, dunque, alcune scene dedicate alla storia cittadina di quei tempi. Vi è la consacrazione del co­mune veronese libero finalmente dalle servitù feudali verso l’impero tedesco. Al centro della lunetta si trova un San Zeno benedicente mentre calpesta il demonio che simboleggia il paganesimo scon­fitto, simbolo anche del coevo potere imperiale identificato come il male. Ai lati di San Zeno sulla destra i rappresentanti della nobiltà veronese e delle famiglie dei mercanti a cavallo (gli equites) e a sinistra i rappresentanti del popolo, in qualità di fanti armati (i pedites). San Zeno, nella scena, consegna una bandiera ai veronesi, una sorta di investitura di derivazione sacra, l’affresco è accompagnato da una scritta in latino: Il Vescovo dà al popolo la bandiera degna di essere difesa / San Zeno dà il vessillo con cuore sereno.

venerdì 18 settembre 2009

La Lettera di Papa Gelasio I all’imperatore d’Oriente Anastasio I

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«Vi sono due autorità dalle quali il mondo è retto: quella del Papa e quella dell’Imperatore, ognuna sovrana nel proprio campo e come tali non cumulabili nella stessa persona se non per opera del diavolo. Esse tuttavia debbono collaborare tra loro, perché ambedue derivano dallo stesso Dio [...]. Tuttavia, poiché l’autorità religiosa ha direttamente a che fare con il mondo soprannaturale, essa [...] è superiore a quella dell’Imperatore, anche se ciò non comporta una sua ingerenza nel campo delle realtà temporali».

Epistulae, XII, 2-3

domenica 13 settembre 2009

Quale il valore della storia?

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Quale posto ha la storia nella vita spirituale e sociale del nostro tempo, quale funzione assolve? [...] Non si professa la storia per la sua "utilità", quasi che essa potesse insegnare la perfezione tecnica e i giusti artifici. Si vuole conoscere il passato. Perché lo si vuole conoscere? C'è ancora chi risponde: per prevedere il futuro. Ci sono molti che pensano: per comprendere il presente. Personalmente, io non arrivo a tanto. Io penso che la storia cerchi di dare uno sguardo al passato in sé e per sé. Ma a che scopo? Il fattore finalistico, nella nostra sete di conoscenza, non può essere trascurato. Evidentemente, in ultima analisi, sempre allo scopo di "comprendere". Che cosa? [...] No, non si tratta della tempesta del fosco presente, ma del mondo e della vita nel loro eterno significato, nella loro eterna tensione e nella loro eterna quiete. [...] Noi ci rivolgiamo al passato per un desiderio di verità e per un'esigenza vitale. [...] Lo scopo da raggiungere non è trarre una utile lezione per un determinato caso che si verificherà nel prossimo futuro, ma trovare un punto fermo nella vita. Rendersi conto, sapere bene dove siamo, determinare la nostra posizione in base a punti di orientamento molto distanti nel tempo: questo è il lavoro dello studioso di storia.

J. Huizinga, La scienza storica, Laterza, Bari 1974, pp. 89, 98, 107, 109.

La storia e il documento

La storia si fa, senza dubbio, con documenti scritti. Quando ce n'è. Ma si può fare e si deve fare senza documenti scritti, se non ne esistono. Per mezzo di tutto quello che l'ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per fabbricare il suo miele, in mancanza dei fiori normalmente usati. Quindi con parole. Con segni. Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con erbe cattive. Con eclissi lunari e con collari da tiro. Con le ricerche su pietra, eseguite da geologi, e con analisi di spade metalliche, compiute da chimici. In una parola, con tutto quello che, essendo proprio dell'uomo, dipende dall'uomo, serve all'uomo, esprime l'uomo, significa la presenza, l'attività, i gusti e i modi d'essere dell'uomo. Non è forse vero che una parte, e quella più appassionante senza dubbio, del nostro lavoro di storici consiste nello sforzo costante di far parlare le cose mute, far dire loro quel che da sole non dicono sugli uomini e sulle società che le hanno prodotte, fino a costituire fra loro quella vasta trama di solidarietà e di ausili reciproci, capace di supplire all'assenza del documento scritto?

L. Febvre, Problemi di metodo storico, Einaudi, Torino 1976, p. 177.